Neanche troppo rossa. Neanche troppo afosa. Ne' troppo deserta.
Lo stendino con i panni stesi a luglio ancora in mezzo alla stanza. Il tappeto colorato trasformato in un armadio, con lo zainone e le borse aperte e parei, abiti, accessori sparsi sopra. Godiamoci ancora un po' l'aria di vacanza. Come la mia stanza a Lipari trasformata in un deposito bagagli, un caotico guardaroba collettivo. Marta vi entrava furtiva, neanche troppo, e impazziva. Cercava sempre di tirare su la bottiglia con la sabbia di Stromboli e portarla in giro per la stanza, con quelle sue braccine piccole ma forzute. Rubava la mia collana azzurra dal cassettino in bagno, fissava le collane colorate che portavo intorno al collo, nascondeva la preziosissima melanzana trafugata in cucina sotto la mia gonna lunga a fiori rossi. C'è chi cova uova e chi cova melanzane.
Poco più di un anno di vita, sorridenti occhi castano-grigi e insofferenza ai limiti. Lei nel box non ci vuole stare. Mi manca quel suo trotterellarmi intorno per casa, i sorrisi mentre le canto la canzone del mago pancione inventando metà delle parole. Ripenso al suo "Iaia!" forte e quasi rabbioso mentre salgo sulla nave. Decido di non voltarmi, perché fa troppo male. Quel Iaia arriva dritto allo stomaco come un grido d'amore, come un'accusa, come un appello disperato.
Tornerò presto piccola, te lo prometto.
Sono su un barcone, uno di quelli tristi e funerei che riescono a portare 80-100 turisti tutti insieme verso una gita che è più un sequestro che un viaggio. Seduta a prua, mi sporgo nell'attesa di una goccia, un'onda, un segno che mi faccia capire che il mare non è così lontano, che l'interno di questa barca non è così asetticamente separato dall'acqua. Fisso le onde, mi lascio incantare dai riflessi come fili d'argento, dalle piccole biglie scintillanti che esplodono una dopo l'altra verso l'alto per poi confondersi con il tutto. Vorrei fotografarle, ma sono come ipnotizzata. Vorrei condividere l'ipnosi con qualcuno ma sono conscia della difficoltà della mia impresa. Abbandono l'idea e mi lascio ipnotizzare docile. Gli arti atrofizzati dall'immobilità prolungata, il mio corpo non esiste più. Solo fili d'argento e biglie scintillanti, ogni tanto le parole moleste del comandante nel megafono.
Lasciarsi andare in mare. Fare il morto. E' così naturale. Eppure, da piccoli, bisogna impararlo.
E me ne sto così, lasciandomi galleggiare, vestita di sole e pensieri strani, con le orecchie piene di rumore di mare e di nulla. Attimi che sembrano infiniti, minuti che vorrei gridare al mondo. Sssshhh ssshhhh.
Fra continua a cercarmi, ma non ci sono per nessuno. In ogni caso non per lui. Yoash mi chiama, vuole sentire la mia voce. Mi chiede quando tornerò a Bologna. Mi ritrovo a mentire, con un vago senso di colpa. Fanno entrambi parte di un'altra vita. Una passata, l'altra possibile.
Oggi chiamo G., gli chiedo se posso passare a salutarlo. Ma ha un problema. Un problema che è uscito a prendere un caffè ma tornerà presto. Sempre lo stesso problema a cui accennava prima delle vacanze. Gli ho voluto bene. A volte avrei voluto vederlo più spesso, ma voler bene a G. significa capire quanto sia libero, significa volergli bene proprio perché è così libero. Proprio perché è uno che sparisce per giorni, settimane e poi ti chiama quando meno te l'aspetti e in 10 minuti è sotto casa.
Gli dico che son tornata. Che tra qualche giorno arriva A., che mi ha chiesto di ospitarlo. Mi chiede "Perché lo ospiti? Non lo conosci".
Le parole mi colpiscono come uno schiaffo. E' poi vero che non lo conosco?
Cosa significa conoscere qualcuno?
Sento di conoscere A. molto più di G. Non è questione di tempo. Non è nulla di quantificabile. Mi sento vagamente agitata. Non sarà mica pericoloso? Non mi ero mai posta il problema.
Eppure in erasmus ti ritrovi a ospitare gente che non conosci neanche, che non hai mai visto. E che in un batter d'occhio fa già parte della tua vita.
Decido di ignorare G. e sento che è la cosa giusta.
Domenica scorsa me ne stavo chiusa in camera mia annoiata. Guardavo filmati di Carmelo Bene che distruggeva nell'ordine Costanzo, la Parietti, Dio. Mi annullavo di fronte al genio. Pensavo però a quanto sarebbe stato bello essere in barca con Mariano. La Tanina, che mi piace più della mia casa. Che ha sempre una sua dimensione particolare nella quale riesce a trasportarti. Lo dico a mia sorella, lei si arrabbia. Mi rinfaccia che Mariano deve lavorare e non posso certo pensare di occupargli un posto inutilmente. La sua mancanza di sensibilità mi ferisce. Cerca di farmi sentire stupida ma non ci riesce. E' lei a non capire.
[ Ho sempre saputo di avere una percezione distorta della realtà. Ma me la cavo bene. I giorni possono essere manti neri che mi avvolgono o favole scintillanti. E va bene così.
Bologna non è la stessa di un tempo e io so perché. ]
Rimango sola in casa, dopo un po' il mio cellulare squilla. Lo recupero dal davanzale della finestra del soggiorno buio. Rispondo. E' lui. Mi chiede se mi va di andare in barca l'indomani, c'è un gruppo di ragazzi romani della mia età. Una di loro, Maddalena, l'ho già conosciuta la settimana precedente. Lo ringrazio e ricomincio a sorridere.
La sera dopo sono a cena dai ragazzi in una casa splendida a Quattrocchi, uno dei punti più panoramici dell'isola. Quasi un open space candido e arioso, con la terrazza e silenzio intorno. Li invidio un gran bel po'. Il cous cous preparato da papà Orso è buonissimo. Non so se posso già chiamarlo papà Orso, ma è troppo il suo nome. Forse parlo poco, forse no. Mi ritrovo alle 2 sola con L., a parlare e bere vodka. E' tenero, di solito non mi piacciono i biondi ma lui ha qualcosa. Non so se ho voglia di baciarlo, ma forse è più si che no. Non so se ne ha lui, trovo quel suo sorriso indecifrabile. Finisco la mia vodka. Gli chiedo di mettere in moto il vecchio scarabeo che mia sorella non ha mai imparato a guidare senza smettere di considerare suo - e che io, quest'estate, non riesco mai a far partire - e volo via verso il centro, verso casa. Mi addormento con una strana sensazione allo stomaco.
Il giorno dopo andiamo a Vinci. E' bella un po' solo alla fine della giornata, quando la piccola baia inizia a svuotarsi e il tramonto si avvicina. Dopotutto, siamo ad agosto. Non pretendiamo mica di avere queste meraviglie tutte per noi.
E invece si.
Mi chiama A., mi dice che il 25, 26 al massimo, torna a Bologna. Mi chiede se posso ospitarlo per qualche giorno. Mi ascolto rispondere che si tratterà di un sequestro. Da quando sono diventata così sfacciata? In fondo nemmeno lo conosco. Ma allora mica lo sapevo. Mi parla di un certo giornalista con cui parlava qualche sera prima, la linea è disturbata, non riesco ad afferrarne il nome. Mi dice di aver letto il messaggio che gli ho inviato qualche settimana prima su myspace. E' in vena di complimenti. "Scrivi molto bene, sei un genietto". Non so se è vero, era solo qualche frase sparsa.
Più tardi, mi verrà in mente la mia insegnante di musica delle medie. Mi incoraggiava a scrivere, probabilmente perché aveva capito che con la musica, io, ero negata. Ripenserò all'unica canzone di 3 note che sapevo suonare con il flauto, prima di capire che non sarei mai riuscita a suonare altro. Ripenserò a quando cantavo, quando ancora avevo un po' di voce, e non sapendo leggere le note fingevo di farlo imparando tutto a memoria. Aprendo le orecchie come delle antenne paraboliche. Non credo che a lui avrò mai il coraggio di raccontarlo.
Decido di anticipare di qualche giorno la partenza e prendere la nave per Napoli con i miei nuovi pallis romani.
E' mercoledi. Andiamo a Panarea e Stromboli con la Tanina, tutta per noi anche stavolta. Mariano non ci va quasi mai, ma fa un eccezione per i ragazzi. E' bello quando delle persone che si conoscono poco scoprono di essere magicamente in sintonia. Quando con poche parole riescono a condividere storie diverse, attimi di vita. Quando repentinamente ti fanno venir voglia di fare qualcosa che non pensavi di fare.
Ammiriamo le isole, rosoliamo al sole, scattiamo un sacco di foto non in posa. Cerchiamo di spalancare gli occhi e catturare quest'ultimo giorno di vacanza. Leo e Niccolò con le loro reflex digitali, io e Ale fedeli all'analogico, Debora con la sua timida digitalina. Nuotiamo a Panarea in un angolo miracolosamente libero da troppe imbarcazioni. Maddy, o forse Ale, risponde al telefono. Dice "sono in Paradiso". Ed è vero. L. nuota lontano, mi inquieta un po' non sapere dove sia. Io e Ale armate di maschera e coltello partiamo alla ricerca di ricci. Riusciamo a prenderne 5 più una patella. Scivolo con le pinne su uno scoglio viscido, rischio di finire con il sedere sui ricci ma mi salvo per un pelo. Nuoto stringendo la busta con il bottino, ogni tanto mi pungo un po'. Mi riposo su uno scoglio ruvido, accanto a L. che è tornato dai suoi giri e recupera la "mia" maschera scivolata giù mentre ero distratta. Parliamo un po'. E' strano rimanere sola con lui. Questa situazione è un po' come una strana danza di cui è difficile capire lo scopo. Ancora non so che poco dopo, tornati in barca, troveremo Mariano davanti a un secchio colmo di ricci, che L. me ne passerà uno sorridendo, che dall'alto della scaletta fotograferò i suoi gesti. Che dopo meno di un'ora, in viaggio verso Stromboli, saremo nuovamente soli a raccontarci frammenti di vita, a sfiorarci le piccole cicatrici sul viso, e che presto mi guarderà con quei suoi occhi grigi prima di baciarmi. Che 2 giorni dopo, lasciando Roma, verserò qualche lacrima per lui, che nel frattempo sarà già diventato il mio piccolo palli de Roma...